22 giugno 1805-2015 Mazzini 210 anni dopo Non c’è un uomo politico negli ultimi duecento anni di storia che ha collezionato amarezze e sconfitte maggiori di Mazzini. Chiunque altro si fosse trovato in simili avversità avrebbe cambiato bandiera e cercato una soluzione di vita più facile. Eletto una terza volta alla Camera dei Deputati nel collegio di Messina nel 1866 gli sarebbe stato sufficiente giurare fedeltà al re per porre fino al suo esilio che era iniziato dal 1831 a soli 26 anni, dopo aver trascorso il 1830 nelle patrie galere. Eppure gli anni sessanta sono stati per lui i peggiori della vita, non solo perché si accorse che l’unità nazionale raggiunta avvenne a spese dell’ideale repubblicano, ma anche perché il malgoverno piemontese al sud rinforzava le tendenze localistiche. Poi la sua salute iniziò a vacillare. In un lettera a John Mc Adam del 20 aprile del 1868, Mazzini si descrive vecchio e bisognoso di cure, di dover rispettare abitudini e prescrizioni, di non poter quasi viaggiare e a volte nemmeno parlare. E pure nello stesso testo egli si ripromette l’obiettivo di rovesciare il papato e la monarchia. Vent’anni prima si sarebbe accontentato di riuscire a buttar giù solo il primo. Due anni dopo soltanto, i piemontesi entreranno in Roma, e Mazzini sarà di nuovo in galera ed oramai aveva 65 anni. Il Mazzini più radicale che conosciamo è questo della vecchiaia, che non si fa più illusioni sulla situazione italiana, sapendo oramai valutare alla perfezione non solo i protagonisti dell’epopea italiana, Rattazzi ad esempio, a cui attribuisce gli stessi difetti di Cavour ma non gli stessi pregi, ma anche quelli stranieri. Il più grande errore politico commesso da Mazzini fu la confidenza nella Francia. Mai avrebbe creduto che davvero la nazione della rivoluzione europea si sarebbe mossa per soffocare una repubblica rivoluzionaria. Che il liberale Alexis de Tocqueville ministro degli esteri rompesse la tregua dei suoi generali di notte per bombardare Roma. Tanto che nel 1870 Mazzini chiuderà i rapporti con Garibaldi definitivamente proprio per la legione italiana comandata dal generale che voleva combattere con i francesi contro i prussiani. La Francia di Napoleone Terzo oramai per Mazzini equivale l’Austria Ungheria e se proprio dovesse egli ha più simpatie per la Germania. Il solco con Garibaldi si sarebbe ancora ulteriormente acuito con il giudizio sulla comune di Parigi. Mazzini in quel momento è solo, lo circondano i morti che hanno accompagnato le battaglie per l’indipendenza italiana della sua giovinezza e gli abbandoni della sua vecchiaia. Lo ha lasciato Orsini e ci ha rimesso la testa e Crispi, divenne il capostipite dei voltagabbana, ma almeno per fare il presidente del Consiglio, non il presidente di un museo o di un acquedotto. La rottura con Garibaldi è dolorosissima. L’immagine di Garibaldi veniva usata da Mazzini nelle cartoline da vendere per raccogliere fondi. “L’entusiasmo si sta dissolvendo”, aveva scritto nel 1861 a proposito dello sfilacciamento delle fila garibaldine imposto da Cavour, eppure Mazzini rimane sulla breccia dell’azione politica ancora altri nove anni, per tornare in Italia, venire arrestato rispedito in esilio e poi tornare a morire in patria sotto falsa identità. Ripercorrere tutto questo oggi può apparire quasi un delirio. Eppure a molti mazziniani, dai fratelli Dandolo a Luciano Manara, da Ciceruacchio, a Pisacane, a Rosolino Pilo, solo per citare alcuni, andò pure peggio. Mazzini aveva insegnato loro che la vita non si vagliava dal successo, ma dall’ideale e l’ideale è l’opposto del reale, una fiamma capace di consumare ogni cosa. Quando sarebbe caduta la monarchia, Mazzini era morto da più di settant’anni e la Repubblica costituita non fu poi tale da poter essere definita una Repubblica mazziniana. Era giunta troppo tardi e rocambolescamente e i suoi frutti sono stati tali che magari uno rimpiange gli austriaci. Quanto al Papato, guai a chi lo tocca. Roma, 22 giugno 2015 |